Il caso tratta il tema della responsabilità professionale in ambito sanitario per il colpevole ritardo con cui è stata riconosciuta la perforazione addominale.

 

1. I fatti di causa

Un paziente, già affetto da cardiopatia ischemica con pregresso infarto miocardico e da numerose altre comorbilità, viene sottoposto ad intervento di rivascolarizzazione miocardica mediante duplice by-pass coronarico. Subito dopo l’intervento si presentano complicazioni tra cui la perforazione retroperitoneale che, producendo un grave quadro settico, lo portano al decesso.
I congiunti, coniuge e cinque figli, convengono in giudizio le strutture sanitarie nelle quali il paziente è stato ricoverato, assumendo il colpevole ritardo con cui è stata riconosciuta la perforazione addominale e chiedendo il risarcimento del danno iure proprio e iure hereditatis.

2. La decisione

Il Tribunale, nel riconoscere la responsabilità dei medici e che un tempestivo intervento chirurgico avrebbe potuto evitare il decesso, respinge la domanda risarcitoria per assenza di un danno non patrimoniale (biologico e morale soggettivo) del de cuius  trasmesso agli eredi e opera una riduzione della domanda risarcitoria per la perdita del rapporto parentale in considerazione delle numerose patologie preesistenti della vittima.

2.1 danno non patrimoniale del de cuius  da trasmettere agli eredi

Per quanto riguarda il primo, il Tribunale ritiene che il paziente, già dopo l’intervento di by-pass coronarico, aveva raggiunto il livello di gravità più elevato non suscettibile di peggioramento fintanto che è rimasto in vita, per cui non è configurabile una compromissione dell’integrità psico-fisica trasmissibile agli eredi.

2.2. risarcimento del non patrimoniale agli stretti congiunti di una persona deceduta

Quanto al danno iure proprio, cioè il risarcimento del non patrimoniale agli stretti congiunti di una persona deceduta per effetto dell’illecita condotta altrui, il Tribunale dopo avere premesso che la liquidazione può compiersi solo con il ricorso a criteri equitativi, riconosciuti nella tabella territoriale di riferimento, riduce del 20% l’ammontare del risarcimento sulla presunzione che la specifica aspettativa di vita fosse inferiore alla media e che ciò doveva costituire un dato acquisito da parte dei congiunti.

a. La prova del danno

Poi, facendo ricorso ai noti principi di personalizzazione del danno, non applica la riduzione alla moglie e ad una figlia, in quanto risultava provato che le stesse avevano  subito conseguenze dannose maggiormente rilevanti “concretizzatesi in uno stato depressivo”.

Le argomentazioni adottate dal Tribunale rispondono, almeno nella prima parte, alle indicazioni costanti della giurisprudenza di legittimità per la quale il danno da perdita del rapporto parentale non può essere ritenuto in re ipsa, ma consiste in un complesso di effettivi pregiudizi di carattere personale di cui il congiunto deve dare allegazione e prova.   La prova può essere raggiunta anche con ricorso alle presunzioni[1] e per la sua determinazione si terrà conto <<dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza, e di ogni ulteriore circostanza, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti.>>.  [2]

b. La quantificazione del danno

Come noto, le tabelle dei principali tribunali italiani e, in particolare, quelle di Roma e Milano, introducono criteri di determinazione del danno non patrimoniale per morte di un   congiunto rispettando le indicazioni della S.C. ed applicando correttivi di cui sopra.

3. La peculiarità della decisione: la presunzione di consapevolezza dello stato del de cuius

Nella predetta decisione tuttavia, il Tribunale introduce un ulteriore elemento di determinazione del danno per adattarlo al caso concreto, costituito dalle pregresse e gravi condizioni di salute della vittima e dalla presunzione della consapevolezza in capo ai congiunti.
Se da una pronuncia della S.C. sembra emergere il criterio per cui le preesistenti condizioni patologiche della vittima non valgono a far presumere un minore legame con i congiunti e quindi una minore sofferenza per la scomparsa del familiare[3], la questione appare assai dibattuta quando, come nel caso in esame, le condizioni di salute della vittima si traducono in una ridotta aspettativa di vita al momento dell’evento lesivo.

3.1 La giurisprudenza sul punto

In una decisione di merito [4] la pregressa compromissione della salute della vittima ha indotto il giudicante a operare una riduzione del 50% sull’importo inizialmente individuato, sul rilievo che la minore speranza di vita rispetto a quella statisticamente propria di un individuo della stessa età, comportasse sul piano soggettivo,  una minore intensità del trauma subito dai congiunti e sul piano oggettivo, una inferiore presumibile durata della relazione parentale futura.

La S.C.[5] pur affermando espressamente che l’aspettativa di vita della vittima primaria deve essere considerata nella liquidazione del risarcimento del danno non patrimoniale subito dai familiari, tuttavia precisa che il giudice, valutando il caso concreto, può ritenere irrilevante che, al momento della morte per fatto illecito, l’aspettativa di vita del defunto fosse inferiore a causa delle infermità dalle quali egli era affetto, a quella media considerata dalle tabelle in uso presso i vari uffici giudiziari.

3.2 Le concause

Tra le pronunce di merito, segnaliamo anche sentenza del Tribunale di Roma[6] che ha preso in considerazione le patologie preesistenti della vittima principale affermando che costituiscono <<concausa tra quelle che hanno determinato il decesso>> e quindi hanno una efficienza eziologica solo parziale, che giustifica la riduzione della pretesa risarcitoria iure proprio dei familiari.
L’utilizzo del termine concausa, in effetti, non è felice da parte del Tribunale perché introduce la diversa questione del nesso di causa materiale e giuridico, senza soffermarsi ad analizzare gli aspetti propri del danno non patrimoniale ai superstiti che si concreta anche «nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti… nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti»[7].

Sul punto è infatti noto l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità che esclude la riduzione dell’entità dell’obbligo risarcitorio a fronte di un eventuale concorso di fattori naturali alla produzione del danno, salva l’ipotesi di interruzione del nesso causale che esclude del tutto la responsabilità dell’agente[8].

3.3. Personalizzazione in favore di alcuni congiunti: lo stato depressivo

Non sono invece condivisibili le motivazioni che hanno indotto il giudice della sentenza in commento, a personalizzare il danno riassegnando alla moglie e ad una delle figlie quel 20% prima decurtato a tutti i congiunti, sul riscontro probatorio che le stesse hanno sofferto di “uno stato depressivo”.

In questi termini, non è chiaro se lo stato depressivo è da intendersi conseguito ad una degenerazione in malattia della sofferenza psichica o se la sofferenza del congiunto, pur non traducendosi in un danno alla salute, presenta aspetti rilevanti ed ulteriori che consentono al giudice un corretto aumento nella liquidazione del danno.

a. degenerazione in sofferenza psichica

Nel primo caso la patologia psichica, per essere rilevante, avrebbe dovuto essere accertata mediante consulenza medico legale, per essere poi liquidata quale danno biologico e parte dell’omnicomprensivo danno non patrimoniale.

b. non si traduce in un danno alla salute

Viceversa, se la sofferenza del congiunto non si è tradotta in un danno alla salute, il giudice avrebbe dovuto comunque fare riferimento a condizioni particolari dei superstiti in grado da giustificare la diversità di trattamento rispetto agli altri.

Manca certamente anche il più piccolo riferimento al contenuto della documentazione probatoria, dalla quale potesse evincersi, solo per fare qualche esempio, la mancanza di rassegnazione, l’isolamento dagli amici e dalle relazioni affettive più intime, la frustrazione sul piano lavorativo o comunque nelle attività del quotidiano, il cui richiamo avrebbe indubbiamente toccato aspetti della personalità meritevoli di tutela.

 

4. Riferimenti giurisprudenziali

[1]   V. Cass., 31.05.2003, n. 8828;  Cass. 30.10.2007, n. 22884.
[2] Così testualmente Cass. 31.05.2003, n. 8828.
[3] Cass. 28.02.2008, n. 5282, in Corr.giur., 2008, 1249, con nota di Rossetti, in relazione alla morte di un soggetto infermo di mente con propositi suicidi.
[4] Appello di Torino, 15.04.2009: «L’intensità del trauma psichico e la gravità del lutto va ritenuta maggiore se siamo privati di un congiunto in modo brusco e immediato, con la brutale intercettazione di un periodo temporale presumibilmente lungo in cui avremmo potuto godere della compagnia del nostro caro e dei suoi apporti affettivi; tali valori decrescono sensibilmente allorché la privazione ci colpisca in una persona della cui compagnia potremmo probabilmente godere ancora per poco tempo ed al cui abbandono ci stiamo, magari inconsapevolmente, cominciando a preparare, gestendo quella provvidenziale capacità di adattamento conservativo che caratterizza la specie umana. Un esempio paradossale giova alla comprensione; pensiamo all’uccisione compiuta da un ipotetico “dottor Morte” di un malato terminale: sembra innegabile che in un caso del genere la sofferenza, il trauma ed il lutto dei congiunti sia molto minore di quello che essi patirebbero nel caso in cui ad essere uccisa sia una persona altrettanto cara ma in normali condizioni di salute e con un aspettativa di vita normale».
[5] Cass. 11.02.2009, n. 3357, in Rep. Foro it. 2009, voce “Danni Civili”, n. 218. Il caso tratta la presumibile vita residua del defunto, determinata in 12 anni in relazione alle sue preesistenti precarie condizioni di salute. La Corte d’appello aveva ritenuto irrilevante, ai fini della liquidazione, la minore durata della possibile vita residua nel senso che, dopo 12 anni (costituenti un notevole lasso di tempo), il pregiudizio dei congiunti, progressivamente ridottosi dal momento della scomparsa, avrebbe perso la sua intensità; non si sarebbe quindi giustificata una riduzione del risarcimento rispetto alla perdita di un congiunto con una ordinaria speranza di vita.
[6] Tribunale di Roma, 9.6.2009, in Sistema leggi d’Italia. Corti di merito. Nel caso di specie, durante un ricovero post operatorio la vittima, già colpita da serie menomazioni alla salute, sviluppava per negligenza dei sanitari lesioni da decubito che la conducevano al decesso.
[7] Cassazione, 9 maggio 2011 n. 10107.
[8] Tra le altre Cass. 28.3.2007, n. 7577.