Il caso

La Suprema Corte, dopo le storiche Sentenze a Sezioni Unite del 2018, è tornata ad occuparsi della compensatio lucri cum damno nel 2020 e da ultimo con due ordinanze del 2022, esaminando l’istituto sotto un profilo squisitamente processual-civilistico: ovvero i modi e i tempi della deduzione in giudizio della relativa eccezione.

Benché non sia l’oggetto di questa nota, non possiamo mancar di ricordare, in apertura, che in forza del principio indennitario (cfr. artt. 1223 c.c., 1905 c.c., 1908 c.c.) è precluso al danneggiato ottenere un risarcimento maggiore del danno effettivamente patito a causa di un illecito.

Oltre “al danno”, infatti, non vi è risarcimento ma una remunerazione e questa è radicalmente inconcepibile nel nostro ordinamento della responsabilità civile improntato alla finalità (prevalentemente) reintegratoria della “pena civile”.

Pertanto, la percezione dell’indennizzo da parte del danneggiato elide in misura corrispondente il suo credito risarcitorio nei confronti del danneggiante, che viene così meno e non può più essere azionato.

In questa prospettiva l’istituto di conio pretorio della compensatio è funzionale al principio indennitario proprio perché consente al danneggiante di sterilizzare la pretesa del danneggiato, contestando la totale o parziale elisione del credito risarcitorio per effetto delle somme che lo stesso ha percepito da un terzo.

Il tutto purché l’incremento patrimoniale ed il pregiudizio discendano entrambi, con rapporto immediato e diretto, dallo stesso fatto illecito ed il primo non sia solo occasionato da quest’ultimo.

Chiusa questa digressione, torniamo a trattare delle tre pronunzie della Suprema Corte su richiamate che, dicevamo, si occupano della deducibilità – d’ufficio o su istanza di parte – dell’eccezione di compensatio.

 

Il precedente orientamento

I primi e più datati orientamenti di legittimità predicavano la natura di eccezione in senso stretto della compensatio configurandola come deduzione di un fatto estintivo del credito risarcitorio e perciò soggetta alle preclusioni concernenti l’allegazione dei fatti primari costitutivi o estintivi della domanda (e, dunque, gli artt. 163 e 167 c.p.c. o, guardando al rito lavoro, gli artt. 414 e 416 c.p.c.).

Questa lettura dell’eccezione in parola era presumibilmente figlia del coevo orientamento di legittimità che la poneva sullo stesso piano di quella di cui al secondo comma dell’art. 1227 c.c. – l’aggravamento del danno per fatto del danneggiato – che, notoriamente, è considerata quale eccezione in senso stretto, sostanziandosi nell’introduzione nel thema decidendi di un fatto ulteriore a quelli consustanziati nella domanda risarcitoria (illecito, danno e nesso).

 

La soluzione più attuale

L’orientamento di legittimità più recente e che appare via via consolidarsi, invece, procede da un presupposto completamente differente poiché individua il “referente normativo” della compensatio non più nell’art. 1227 c.c. ma nell’art. 1223 c.c.

In forza di questa mutata prospettiva, si sostiene, adesso, che l’eccezione non introduce un fatto estintivo ulteriore a quello introdotto dal danneggiato ma una diversa rappresentazione dello stesso fatto che dà conto di un danno già “assorbito” o, quantomeno, di minor entità per via della parziale o totale elisione dei “pregiudizi” con i “profitti” originati dallo stesso evento lesivo.

Secondo questa lettura, dunque, l’eccezione in discorso non consegue ad un fattore esogeno come, ad esempio, l’esercizio di un (contro) diritto dell’autore dell’illecito ma un limite endogeno del diritto al risarcimento della parte lesa.

 

Osservazioni conclusive

Il più recente orientamento di legittimità ha l’indubbio pregio di dar coerenza applicativa all’istituto.

Se, d’altronde, la compensatio è al servizio del principio d’integralità del risarcimento (o principio d’indifferenza) non avrebbe senso introdurre, nel processo, limiti alle allegazioni difensive delle parti funzionali ad evitare l’indebito arricchimento del danneggiato.