Chi abusa dello strumento processuale, ed all’esito del giudizio risulta soccombente, può essere condannato ai sensi dell’art. 96 c.p.c. per responsabilità aggravata.
Il nostro ordinamento disincentiva, pertanto, le azioni ingiuste e temerarie di coloro che, agendo consapevolmente, aggravino inutilmente il corso della Giustizia.
Esempi concreti di azioni che sono state ritenute dal Giudice temerarie e, quindi, tali da legittimare l’applicazione dell’art. 96 c.p.c. vengono illustrati in ben tre recenti sentenze di Tribunale: di Lucca del 24.04.2023, di Velletri del 3.03.2023 e di Treviso del 31.05.2023 che hanno riconosciuto in favore del notaio convenuto, risultato vittorioso, il pagamento da parte del soccombente di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno, commisurata all’importo liquidato per le spese di lite.
Si tratta di pronunce interessanti anche perché testimoniano un cambio di orientamento proprio in ordine al criterio adottato ai fini della quantificazione del danno ex art. 96 c.p.c. Se, infatti, prima la liquidazione assumeva un carattere spiccatamente punitivo poiché avveniva, ad esempio, in misura tripla rispetto all’importo delle spese legali (cfr. Tribunale di Roma del 15.01.2019) o era parametrata alla somma pretesa dall’istante risultato soccombente e, quindi, quantificata come una sua percentuale (cfr. Tribunale di Teramo dell’8/07/2013), con queste più recenti sentenze il Giudice del merito sembra aver adottato quale parametro “equo” – e sotto un certo profilo più “oggettivo” ma in ogni caso ugualmente deflattivo – la liquidazione delle spese legali.
Passando, quindi, a considerare le condotte censurate che hanno legittimato l’applicazione dell’art. 96 c.p.c. si rileva come nella prima pronuncia (quella del Tribunale toscano dello scorso aprile), al di là della verifica della infondatezza della domanda, e, quindi, della insussistenza di responsabilità del professionista per quanto oggetto di causa, il comportamento è consistito, in primo luogo, nell’aver colpevolmente taciuto una circostanza di fatto dirimente per l’introduzione stessa della lite e, quindi, per la sua definizione; in particolare il rilascio di una dichiarazione avente ad oggetto l’informativa ricevuta dal notaio sul contrasto giurisprudenziale esistente in ordine agli effetti fiscali dell’atto richiesto e, perciò, in ordine alla consapevolezza e volontà di procedere comunque alla stipula. In secondo luogo, nell’averne, altrettanto colpevolmente, disconosciuto l’autenticità – una volta prodotta in giudizio dal notaio – dando così avvio ad una onerosa attività istruttoria volta, appunto, alla sua verificazione. Risultando, quindi, “provato che il notaio ha fornito all’attrice le informazioni in merito al dibattito esistente sulla natura giuridica dell’atto di risoluzione della donazione che intendeva stipulare e alle conseguenze negative che ne sarebbero potute derivare, anche ai fini fiscali, dal momento che è stata prodotta la dichiarazione sottoscritta dalla XXX (doc. 6 di parte convenuta) e la CTU ha dimostrato che la sottoscrizione ivi apposta è autentica”, il Tribunale ha correttamente respinto la domanda.
La condanna dell’attrice al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c. è stata, pertanto, ritenuta giustificata “dall’introduzione del presente giudizio, pur avendo sottoscritto la dichiarazione sopra analizzata, senza nemmeno menzionarla, ed arrivando a disconoscere la firma apposta davanti al notaio che è stato dimostrato essere autentica”, con sua revoca all’ammissione provvisoria al gratuito patrocinio per aver agito in giudizio con mala fede; da qui il “raddoppio” delle spese.
Nel secondo caso (Tribunale di Velletri dello scorso marzo) parte attrice ha agito in giudizio al fine accertare la parziale annullabilità di un atto di precisazione, transazione e trasferimento viziato – secondo la prospettazione attorea – da errore, vizio e/o dolo del consenso.
In particolare, la censura mossa nei confronti del notaio rogante era quella di non aver adeguatamente informato le parti circa le obbligazioni assunte nel suddetto atto di transazione.
Essendo risultato provato, però, che gli istanti erano perfettamente consapevoli della situazione fattuale e giuridica presupposta dalla transazione impugnata – unitamente al fatto che gli attori, in corso di causa, hanno modificato la prospettazione delle circostanze che li avevano indotti a firmare l’atto – il Giudice non solo ha integralmente rigettato la domanda proposta ma, ritenendo che nella fattispecie in esame ne ricorressero senz’altro i presupposti, ha condannato gli attori al risarcimento del danno per lite temeraria per un importo, come detto, pari a quello riconosciuto a titolo di rimborso spese di lite.
Nell’ultima e più recente sentenza dello scorso maggio il Tribunale di Treviso ha ritenuto che parte attrice “abbia introdotto il presente giudizio con dolo o, quanto meno, con colpa grave” considerando con specifica attenzione la condotta concreta tenuta in occasione delle vicende poste a fondamento della propria azione “(particolarmente rilevanti sono la mancata impugnazione degli atti del procedimento ai sensi degli artt. 26 e 36 LF, la sanatoria di cui all’art. 2929 CC, la condotta dilatoria tenuta dall’attrice successivamente all’aggiudicazione dell’8.4.2021 e, in ogni caso, la palese infondatezza delle censure mosse in questa sede” ed evidenziando, con particolare riferimento alla posizione del notaio convenuto per l’attività svolta quale delegato ex art. 591 bis c.p.c. “l’assenza di una specifica domanda nei suoi confronti e l’evidente assenza di qualsivoglia responsabilità in capo allo stesso, essendosi egli limitato a rogare un atto debitamente autorizzato dal GD con provvedimento mai impugnato”.
La società attrice è stata così condannata ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c. al pagamento in favore di ciascuno dei convenuti di una somma che – anche in questo caso – è stata quantificata in un importo pari a quello delle spese di lite.
Avv. Fabiana Peruzzi
Avv. Flavia Buratta